Relazione sulla spedizione di speleologi dell’ U.V.E. Unione Vicentina Escursionisti, in seguito C.A.I. Vicenza, al Buso della Rana del 25 Giugno 1934, XII.
GROTTA DEL RANA DI PRIABONA
In seguito all’articolo apparso su “Vedetta Fascista” dello scorso anno, inerente alla spedizione speleologica del Gruppo di Arzignano condotta nella grotta del Rana di Priabona (Monte di Malo), la Sezione di Vicenza volle seguitare quest’anno l’incompiuta esplorazione della grotta.
Dopo una prima ed affrettata spedizione condotta il 24 Maggio c.a. eseguita a scopo di ricognizione, poco fortunata per la insufficienza di mezzi adatti, venne il 10 Giugno c.a. ripetuto il tentativo con risultati più soddisfacenti.
L’entrata veramente maestosa della grotta colpisce il turista per il suo aspetto di galleria artificiale, avendo mura liscie e squadrate come se fossero fatte dalla mano dell’uomo. Un piccolo torrente ( il Rana) irrompe della bocca oscura della grotta ed il suo rumore è reso più cupo dalla volta risonante.
Appena entrati attacchiamo il ramo di destra, in salita ed accidentato; questo dopo un centinaio di metri si restringe e si abbassa costringendoci ad avanzare ventre a terra. Grossi pipistrelli sfiorano colle loro ali i nostri volti e gli abbaglianti fari. Dobbiamo fermarci perchè il passaggio ora in discesa và facendosi via via più angusto poi impraticabile sprofondandosi nell’acqua.
Ritornati all’entrata, riprendiamo la via di sinistra (Ramo Principale): quella che nella prima spedizione aveva offerto un interessante percorso e che era già stata battuta dagli amici di Arzignano. Notiamo subito che il livello delle acque è notevolmente più alto a causa delle frequenti pioggie dei giorni precedenti costringendoci ad avanzare immersi fino al ginocchio.
Il primo tratto si snoda a zig-zag. Ogni tanto qualche strettoia, ma nulla di interessante fino al primo laghetto ( Pila dell’acqua Santa). Questo benchè di scarsa superficie è abbastanza profondo e per evitare un bagno poco piacevole, data la bassissima temperatura dell’acqua, si deve effettuare un laborioso passaggio lungo un’angusta cengia sulla sinistra.
Alla parte opposta le pareti del laghetto si stringono ed una bellissima colonna stalagmitica segna l’inizio di un nuovo corridoio. Fin qui nulla di nuovo, ma fatte poche decine di metri iniziano le prime serie difficoltà da superare: il sifone.
Un avvallamento del terreno ed il notevole abbassarsi della volta-tetto fino a circa un metro dal suolo formando una specie di tubo ad U. L’acqua in tempo di magra riempie quasi completamente l’avvallamento fino a qualche decimetro dalla volta. Noi troviamo il sifone addirittura in pressione. Dopo un’ora di lavoro però abbiamo la soddisfazione di vedere abbastanza abbassato l’altissimo livello dell’acqua.
Riusciamo così ad ottenere tra la superficie dell’acqua e la volta uno spazio di una trentina di centimetri e inizia così la traversata del sifone a carponi con quasi tutto il corpo nell’acqua.
L’acqua ci sfiora il mento togliendoci il respiro, alcuni fanali si spengono per il fortissimo vento proveniente dall’interno e urtiamo più volte con la testa contro le scabrosità della volta; al chiarore incerto dell’unico fanale ancora acceso crediamo di non poter più continuare e ci sembra che l’oscura montagna voglia inginocchiarsi sopra di noi ed impedirci ogni ulteriore avanzamento.
Ma si continua in silenzio e dopo poco possiamo uscire dall’acqua con tutto il petto e la magnificenza di un vasto camerone ci fà dimenticare la difficoltà or ora superata. Riaccesi i fanali un’altra bellissima colonna calcarea rimanda con effetto fantastico i raggi luminosi. Ma ora l’aspetto della grotta cambia e a tutti, il presentarsi di uno stretto e profondo fiume sotterraneo costretto tra due liscie pareti convergenti verso l’alto (Laghetto di Caronte) richiama alla mente qualche cosa di dantesco. Illuminiamo coi nostri fari il corso del fiume. Il fiume non può essere passato a guado data la sua profondità di circa cinque metri; per questo nella precedente spedizione abbiamo usufuito di una specie di barca sovrapposta ad un largo tavolone.
Stavolta però il passaggio viene effettuato con l’uso di dieci pneumatici applicati simmetricamente a quella caricatura di barca. Per mezzo di due lunghe corde l’imbarcazione che non sopporta il peso di due individui, viene passata da un approdo all’altro.
Chi di noi ha compiuto il tragitto per primo ha potuto ammirare ciascun compagno che ritto sulla barca con il capo illuminato da un potente faro da minatore, rievocare l’immagine del nocchier della livida palude, ” il vecchio Caron dimonio dagli occhi di bragia” perciò abbiamo pensato di battezzare quel luogo ” Il passaggio di Caronte”.
Finita la navigazione “Sulla triste riviera” riprendiamo il cammino lungo uno scabroso corridoio in salita lungo circa duecento metri.
Ecco uno spettacolo veramente bello; ombre strane di massi caduti dall’alto e disposti qua e là alla rinfusa dalla violenza delle acque; strano susseguirsi di penombre sul soffitto del grande corridoio largo dai sei ai sette metri.
Un enorme masso caduto dall’alto è quasi sospeso tra le pareti e sembra precluderci i passo. Passata una strettoia formata da due macigni sovrapposti a croce, ci troviamo dinanzi a tre corridoi (Trivio).
Di questi quelo di sinistra è chiuso dopo una decina di metri. Il corridoio di destra presenta un fiume ruinoso ( Ramo delle Marmitte). Il corridoio centrale ( Ramo Principale) somiglia molto al passaggio di Caronte ed anche qui per proseguire dobbiamo far uso dell’imbarcazione trasportata con noi a forza di braccia. Effettuato questo passaggio infiliamo una galleria a pavimento sabbioso e talvolta coperto dall’acqua.
Col’alternarsi di guadi e bassi passaggi, di vie tortuose, eccoci finalmente arrivati in un ripidissimo camerone ( Camerone dei Massi) in cui i massi sembrano le rovine di un grandioso tempio antico.
Una grande volta irta di piccole stalagmiti nerastre domina il caotico complesso del suolo.
L’oscurità è rotta di tanto in tanto dai punti luminosi delle lampade sparse qua e là; ciascuno và un pò per proprio conto dominato ed attratto dalla grandiosità della sala insinuandosi tra crepacci e strettoie mentre le ombre fortemente ingrandite danzano sulle pareti calcaree con effetto fantasmagorico. Il pavimento sale verso il tetto e sembra congiungersi con questo, ma ne è diviso da uno strettissimo vano che ci consente di proseguire. In questo momento uno scrosciante rumore di acqua ci giunge all’orecchio; il cammino è reso difficile dalle pareti che talvolta danno origine a dei veri e propri imbuti di circa un metro di diametro. Per una cinquantina di metri siamo costretti ad avanzare aggrappandoci alle asperità delle pareti, mentre i fari illuminano alcuni metri sotto di noi la superficie di un profondo laghetto.
Lo scrosciare dell’acqua ci assorda sempre più. Arriviamo finalmente in quest’ultima sala più alta che vasta (Cascata). Un abbondante e violento getto d’acqua sgorga da una spaccatura della parete a circa cinque metri dal suolo accolta inferiormente da una profonda vasca.
Illuminando la bocca della fessura vediamo che essa si profonda e ci sentiamo allettati dal suo mistero. Uno di noi tenta audacemente la scalata, ma quando presso la fessura il calcare viscido d’acqua non gli offre più pane ed esso compie un involontario tuffo nella vasca.
Visto l’impossibilità di proseguire, ritorniamo sui nostri passi, e senza alri incidenti giungiamo alla triforcazione già nominata (Trivio).
Facciamo tappa e pensiamo bene di colmare il vuoto quasi torricelliano dello stomaco. L’abbondante stillicidio non ci lascia in pace.
Dopo poco attacchiamo l’angusto fiume di destra (Ramo delle Marmitte) servendoci dell’imbarcazione. Ma tosto le nostre intenzioni sono frustrate dallo scoppio di quasi tutti i pneumatici causato dalle asperità stalattitiche della roccia.
Prendiamo definitivamente la via del ritorno. Il passaggio di Caronte non viene effettuato con la regolarità di prima poichè, per il rovesciarsi dell’imbarcazione, due di noi devono compiere forzatamente la traversata a nuoto.
Ripassiamo il sifone, la cengia (Pila dell’Acqua Santa), il laghetto, ecc..”ritornarono a veder le stelle) che veramente ormai incominciavano ad occhieggiare nel firmamento.
Tosto un vestito caldo, un’abbondante colazione e più un buon vinello scacciano dalle ossa il gelido umidore subito per ben undici ore.
La grotta del Rana non è certo una caverna per turisti bensì per speleologi….arrabbiati, si presenta però ricca di soddisfazioni e di bellezze naturali ai seguaci del giovine sport.
Si sta allestendo nuovo materiale per una prossima e completa esplorazione.