LA SCOPERTA DEL RAMO DELLA FAGLIA
inedito di Paolo Boscato (su gentile concessione del medesimo)
Estate 1972: da un po’ di tempo le scoperte di nuovi chilometri di gallerie nel Buso della Rana riempiono la nostra vita. Nella sede del CAI di Vicenza con quel buon odore di legno ci troviamo in tre: Alberto Girardi, Enrico Gleria ed io. Sul grande tavolo la solita planimetria della grotta e il dito sudato di Alberto che questa sera ha i baffi sporchi di gelato al caffè e che pare deciso: “Qui, direi di fare una spedizione di rilevamento proprio in questa zona, in questi piccoli rami, così anche la parte ovest della grotta potrà dirsi terminata”. Cerco gli occhi di Enrico alla ricerca della nostra intesa: “Per noi va bene. Quando partiamo?” “Vi va bene domenica?” “Domenica”. E lasciamo in fretta la sede perché Alberto ha acceso la pipa caricata a trinciato di carrube. Le chiacchiere continuano nel bar di sotto, all’aperto, davanti ad una birra.
30 luglio, domenica mattina. Alberto passa a prenderci con la sua 500 blu. C’è un bisticcio perche Enrico vuole sedere davanti ma arriviamo al compromesso che al ritorno toccherà a me. In grotta, il percorso di avvicinamento alla zona che ci interessa è accompagnato dal puzzo del maglione di Alberto impregnato dai liquidi organici del gatto di casa. Quasi quasi era meglio la pipa. Arriviamo nella zona in poco tempo – il fiato non ci manca – e lì mentre Enrico e Alberto iniziano a rilevare alcune diramazioni, io li precedo per aprire la strada e informarli sulla direzione e lunghezza del ramo. Non va bene, i rami finiscono tutti dopo pochi metri o su frana o su misera strettoia e l’entusiasmo cala velocemente. Devo superare un basso passaggio interamente su fango e acqua per trovarmi al di là il cunicolo sbarrato. Mi tiro su con le caramelle al latte che gonfiano il taschino della tuta, e via di questo passo per altri cinque o sei rametti.
Ormai siamo stanchi e più che mai bagnati. I due amici avanzano con la lentezza del rilevamento a bussola e cordella metrica scambiandosi numeri e qualche battuta. Il tempo passa e si arriva allo spuntino energetico che ci fa tirare le povere somme e il fiato: “Mancano solo questi due rami” dice Alberto lisciandosi sul ginocchio un pezzo di rilievo sgualcito e infangato. “E allora” – rispondo io – “muoviamoci che se va avanti così in un’ora finiamo”. Di nuovo in piedi e di nuovo per primo mi infilo nel ramo. Nulla. Allora avviso gli amici che parto per l’ultimo che s’apre più avanti, e li lascio alla loro bussola. L’apertura era stata intravista durante la prima esplorazione, a circa tre metri dal pavimento, ma mai il ramo era stato esplorato. Mi arrampico con cautela in una piccola parete di detrito e arrivato all’imbocco del cunicolo mi investe una forte corrente d’aria. E’ quasi un tuffo al cuore: l’aria fredda che mi entra dentro mi parla, mi dice che ho trovato il cunicolo giusto ed è un invito, quasi una sferzata, a buttarmici dentro. La fatica è dimenticata, supero una curva, davanti a me un bel ramo su frana spazioso, il richiamo della corrente d’aria continua. Procedo in fretta, il cunicolo va in salita e si fa sempre più largo, una piccola sala, poi ancora su, un breve pozzo alla mia sinistra. Quanti metri ho percorso? Continuo ancora, veloce. Ogni passo è il primo passo, ogni raggio di luce della mia lampada è la prima luce tra queste rocce. Il buio che si chiude alle mie spalle, che mi separa dagli amici, è una porta serrata di dolce solitudine. Cammina leggero, mi dico, non lasciare segni, non ferire questo antico silenzio. D’improvviso compare alla mia sinistra un magnifico specchio di faglia di dimensioni mai viste in questa grotta. Di colore biancastro, sembra la fiancata di una nave tant’è liscio. Piccoli veli d’acqua ne evidenziano la regolarità. E’ molto lungo e fa da parete ad una bella sala, sempre su frana.
Ritorno veloce verso i pazienti amici. Per un soffio non precipito dentro il pozzetto e rallento l’andatura. Trovo Enrico e Alberto che hanno appena terminato il rilievo del penultimo cunicolo; i loro occhi sono velati dal freddo ma le mie parole arrivano a scuoterli. Mi seguono ben consapevoli, conoscendomi, che potrebbe essere tutto uno scherzo, ma si convincono subito, sin dai primi metri, e anche loro finiscono catturati da quella corrente d’aria. I metri vengono macinati dalle nostre gambe quasi nel timore che tutto sfugga, che la nave riparta, e la parete di faglia, ora illuminata da tre lampade, è veramente unica nella sua lucentezza. Percorriamo tutta la sala, poi scendiamo tra i massi di crollo in un vasto ambiente con pavimento di fango, lunghe stalattiti al soffitto, una curva a destra; il ramo ora è molto alto e presenta un pavimento sabbioso. Superiamo due grandi marmitte sventrate fermandoci sull’orlo della seconda: c’è da superare un salto di pochi metri ma a strapiombo e siamo senza cordini o staffe. Dobbiamo rientrare. Al ritorno, buttiamo giù uno schizzo esplorativo e valutiamo la scoperta sui tre-quattrocento metri.
Impossibile resistere a lungo. Il desiderio di continuare l’esplorazione ci porta ad organizzare una nuova spedizione il 20 settembre. Nel frattempo, ho fatto una puntata in autostop in Marocco. Siamo sempre in tre, ma manca Alberto. Al suo posto Franco Farronato, fuggito di fresco da una squadra di pallacanestro per provare emozioni senza pubblico. E’ alla sua seconda spedizione ma se la cava bene. Percorriamo il nuovo ramo rilevando con un’enorme bussola da miniera, gentile prestito di Alberto Broglio, che fa impazzire Franco alle prese con cordella metrica e fune per la sospensione dello strumento. Arriviamo così sul ciglio del pozzetto e nelle nostre mani compare tutto (o quasi) l’occorrente per la discesa. Il lavoro con il fioretto sul calcare compatto si rivela troppo laborioso e andiamo alla ricerca di una fessura per fissare un chiodo. E’ presto fatto ma la staffa risulta troppo corta. Su idea di Franco usiamo per allungarla il cordino della bussola (che è un normale cordone da tende) passato quattro volte nel moschettone. Franco dice che dovrebbe tenere perché da piccolo si arrampicava sui tendaggi di casa. Scende Enrico. Una volta giù (sono pochi metri) esplora la sottostante sala e ci giungono brontolii sommessi: una frana occlude completamente il ramo e pare non ci sia nulla da fare. Con Franco scendo a constatare il fattaccio e i nostri tentativi di infilarci tra i blocchi della frana risultano vani. Non è andata come l’ultima volta.
Il Ramo della faglia, però, non ha cessato di offrirci gradite sorprese. Dopo circa un mese, il 22 ottobre, in una nuova spedizione condotta da me e Pierangelo Spiller arriviamo, sempre con il sistema delle esplorazioni sistematiche e dopo inutili sforzi per entrare in insignificanti diramazioni, in un cunicolo laterale, inesplorato, che s’apre nella parte alta del ramo, già individuato nella prima esplorazione. L’ingresso vero e proprio è situato ad una decina di metri dal pavimento del ramo e la parete, pur ricca di appigli, è su detrito e quindi da affrontare con attenzione.
Salgo per primo muovendo un’enorme quantità di pietre trattenute solamente dal fango; la salita non è difficile ma resa pericolosa proprio dalle frane. Dall’alto vedo la fioca luce della lampada di Pier che non vuol mai funzionare: lo chiamo perché il cunicolo continua bene. Altro rumore di pietre e viso sudato dell’amico che spunta dall’ultima soglia. Riprendiamo l’esplorazione in un cunicolo veramente interessante che si sviluppa per circa 200 metri e ne iniziamo il rilievo. Siamo soddisfatti, da come era cominciata la giornata questo cunicolo è un vero regalo.
Al ritorno dobbiamo affrontare il problema della discesa della instabile parete. Scendo per primo seguito da Pier e mi devo fermare nell’ultimo tratto perché i miei stivali non incontrano solidi appigli. Indugio sporgendomi e illuminando il tratto di parete: è un problema, frana tutto e nel nostro equipaggiamento, sempre troppo essenziale e superleggero per non compromettere la nostra agilità negli stretti cunicoli, manca una corda. “Se te voi”, mi fa Pier, “ghe se la cinghia de le me braghe”. “Ottimo”, gli rispondo, “passa qua”. Pier in scomoda posizione si contorce nella sua operazione di spogliazione e la preziosa cinghia arriva nelle mie mani. “Tieni forte!” gli dico, ma non non c’è bisogno tanto ispirano fiducia le sue enormi mani d’acciaio. Solo che la cinghia alla prima tensione salta: fortuna che ho l’altra mano saldamente ancorata ad una maniglia. Tra le scuse di Pier riusciamo a scendere e prendiamo la lunga via del ritorno, lui con una mano a reggersi i calzoni.
(1972) Paolo Boscato